Violenza di genere, violenza sulle donne…
In questi anni se n’è sentito parlare sempre di più, ma in che termini?: la violenza sulle donne oggi è resa oggetto di profitto, utilizzata come brand da aziende che attraverso il marketing promuovono campagne antiviolenza, spesso riproponendo un’immagine di donna-vittima stereotipizzata, cioè legata ad un’estetica che mostra le donne come deboli, indifese, passivi oggetti da “aiutare e proteggere”. Oltre alla creazione di un immaginario vittimizzante, il discorso mainstream sulla violenza ha accompagnato l’incedere di leggi e pratiche istituzionali repressive, rivolte soprattutto a donne e soggetti marginali, quali migranti e soggetti Lgbit, che hanno comportato la ridefinizione di quello che deve essere il ruolo della vittima perfetta nella nostra società.
Le “buone vittime” sono docili e funzionali al mercato, così come alle politiche securitarie che vorrebbero “tutelarle”. Le buone vittime sono silenti, non si autodeterminano. Per questo motivo esse non sono solo buone, ma anche vittime “perbene” cioè del tutto compatibili a questa rappresentazione; sono donne che, “poverine”, non se la sono cercata, perché sono italiane, madri, mogli, fidanzate, non dedite a facili costumi. Le vittime perbene sono innocue, sono la normalità.
Le loro corporeità sono istituzionalizzate e pronte ad essere consegnate ai tutori/tutrici, paladin* dell’integrità e della dignità femminile.
Poi ci sono le altre, le “vittime permale”, per la maggior parte dei casi completamente omesse dal discorso o, quando incluse, stigmatizzate attraverso retoriche razziste e colpevolizzanti. La gogna mediatica in questo senso agisce molto rapidamente, attraverso il victim blaming, o vittimizzazione secondaria, cioè la colpevolizzazione della vittima per il solo fatto aver subito un abuso.
Quando la violenza coinvolge le altre, le donne non-perbene, povere, migranti, che si ribellano alla norma, allora no…non è un abuso, è solo una mancanza di prudenza da parte di chi la subisce. Per il solo fatto intrinseco di non essere ricompresa nella normalità, oppure per aver apertamente trasgredito alle regole, o peggio, per entrambe le motivazioni.
E così, d’improvviso, come nella favola risuona una frase,”dove vai tutta sola nel bosco, cappuccetto rosso? attenta che fuori c’è il lupo!”. Di qualunque “lupo” si stia parlando…perchè la violenza ha molte forme, non è necessariamente perpetrata da un unico soggetto in carne ed ossa. Certo, però, l’avvertimento -a non trasghedire la norma- è sempre lo stesso. Perché se poi le prendi, se poi ti stuprano, ma anche se perdi il lavoro, te la sei cercata. E non ci sono scuse che tengano. Nessun*, soprattutto dall’alto, sarà solidale con te.
Questa dicotomia del concetto di vittima risponde ad una volontà di ridefinire il confine tra l’inumano-subumano e l’umano, marginalizzando da un lato tutti i soggetti che non sono ricompresi nella norma, dall’altro ergendo ad unica possibile tipologia di fragilità ammessa, perché perbene, altri soggetti.
Per tutt* gli/le altr*, resta soltanto la colpa della propria fragilità, che pesa giorno per giorno su ogni scelta presa sulla propria vita.
Ma caliamoci nel contesto particolare: siamo a Milano, il 25 novembre è alle porte e il carrozzone delle iniziative antiviolenza già incomincia a muoversi.
Gli autobus sono tappezzati di campagne di sensibilizzazione, i consueti appuntamenti mainstream come il balletto neocolonialista “one billion rising” sono già organizzati, infiocchettati e lustrati in un ridondante vuoto di contenuti, su tutto il territorio.
Perché Milano è la città di Expo2015, la città che vorrebbe unire tutte le donne del mondo in un’unica patinata donnità universale, secondo il modello sponsorizzato a gran voce dal progetto Women for Expo. La Milano di WE è fatta di “buone pratiche”, “emozioni”, “idee”, “ricette per la vita”.
Questi discorsi però non sono fatti solo di parole. Essi rispondono ad una precisa logica di ridefinizione degli spazi urbani: in questa città è tempo di fare un po’ di pulizia.
Tutto ciò che non è normalità deve sparire alla svelta, sotto il tappeto di un’amministrazione che si affanna ad accelerare il piano sgomberi di spazi sociali ed occupazioni abitative.
Durante uno di questi, nel quartiere di Corvetto, una donna incinta di sei mesi, scesa in strada per rivendicare il proprio diritto ad un tetto, è stata colpita alla pancia da una manganellata e nelle ore successive ha perso il bambino. La corrispondenza tra quanto accaduto e l’aborto è già stato messo in discussione dai media mainstream, che escludono la colpevolezza degli agenti; a ciò è seguito un coro di commenti colpevolizzanti e razzisti nei confronti della donna.
Nela è rumena, ha 37 anni e 4 figli, occupa casa perché un lavoro non ce l’ha più. Una situazione comune a molte persone nel nostro paese, che di fronte ad una sempre più pesante riduzione del welfare, sono rese colpevoli della propria condizione di fragilità e povertà. Nella Milano di Women for Expo non c’è reale spazio vitale, nè “ricette per la vita” che tengano per donne nella sua condizione.
La violenza di genere ha molte modalità di esplicitarsi, non sempre è messa in pratica in maniera diretta da un signolo su di un altro, come avviene in quella perpetrata nelle relazioni intime. Essa agisce su più livelli, in quanto “la gerarchia e la disuguaglianza tra i generi, nonché la violenza sessista, hanno spiegazioni e dimensioni molteplici: economica, sociale, giuridica, simbolica, linguistica, semantica”(Rivera, 2014).
Essa inoltre s’interseca ad altre forme di violenza come, ad esempio, in questo caso la violenza istituzionale, perpetrata cioè come dispositivo di controllo del potere politico, ai fini del mantenimento dello status quo, dell’ordine, delle leggi, giuste o sbagliate che siano.
Forse per queste ragioni bisognerebbe cominciare a pensare la violenza in maniera unitaria, poiché continuando a leggerla in maniera residuale, senza ricollegarla al macro contesto in cui tutt* siamo immersi, si rischia di rimanere intrappolati in quel meccanismo che divide, in maniera dicotomica, esseri umani di serie a da esseri umani di serie b.