- Dove si collocano i transgender studies rispetto alla queer theory?
Se pensiamo alla queer theory come alla critica della socionormatività da una prosettiva di margine, direi che in passato i transgender studies erano parte della teoria queer, dove i/le transgender erano considerat* un genere particolare di queer. Nel tempo però il termine queer è stato sempre più associato al termine omo, perdendo, a mio avviso, quel potenziale radicale e il suo focus originale: la questione principale infatti non è l’omosessuale in se, bensì la sua posizione all’interno di un sistema di relazioni sociali. Tant* transessuali, dunque, non si vedono necessariamente associati ai queer. Da queer a LGBT, la questione cambia ulteriormente: si passa da un qualcosa di potenzialmente radicale a una politica che ha un carattere più… liberale, diciamo così, una politica di inclusività, dietro cui gioca una logica liberale di identity management, di accumulazione flessibile. Il termine LGBT non mi piace particolarmente perché rimanda ad una politica neoliberista di inclusione.
- Quindi sta dicendo che c’è bisogno di ripensare la categoria LGBT?
Credo che un sacco di cose buone sono accadute sotto l’ombrello del termine LGBTI e chi più ne ha più ne metta, proprio perché la nostra società è definita attraverso queste categorie, categorie che ci attraversano e attraverso cui viviamo. E quindi sicuramente queste devono essere politicizzate, e sicuramente dobbiamo pensare a quanti più modi possibili per unire le lotte, in modo da superare la strategia del “divide et impera”. Naturalmente è importante, quando si ha a che fare con comunità marginali che sono piccole in numeri, trovare il modo per collegare questioni specifiche a questioni sociali più ampie, quindi tutto ciò va bene. Penso che qualsiasi tattica che si possa utilizzare per rendere la qualità della vita migliore per le persone deve essere utilizzata, ma credo anche che una politica basata sui diritti e una politica basata sull’identità sarà sempre insufficiente. Quindi non è sufficiente dire, come per la questione transgender “vogliamo includere i diritti transgender nella nostra piattaforma, programma, manifesto” perché “transgender” semplicemente non è una categoria unica. Di chi si sta parlando? Travestit*, transessuali, non-genders? Quali richieste, esattamente, si sta cercando di articolare?
Allo stesso tempo, credo che lo stato e il capitale lavorino per dividere la categoria “transgender” tra coloro a cui è permesso essere un veicolo di vita e coloro che invece sono destinati ad una morte prematura. La categoria in sé non è coerente, il potere funziona attraverso le categorie, dividendole e specificandole. Tale processo di controllo e organizzazione della popolazione eterogenea in frazioni ritenute degne di vita e frazioni che vengono consegnate alla morte prematura, opera attraverso le categorie, non solo esercitando potere su di esse.
- Come si può ripensare la storia coloniale europea attraverso i transgender studies?
I transgender studies richiedono una rilettura della storia europea. Le nostre modalità di incarnare l’identità sono organizzate secondo logiche di biocertificazione, che tentano di ancorare la categoria sociale che opera attraverso il corpo, nella sostanza materiale del corpo stesso. Questi atti di categorizzazione biocertificata sono organizzati secondo diversi binari, come se ci fosse un luogo dove il corpo può essere situato, uno spazio concettuale a cui il corpo viene inchiodato, dove la categorizzazione e la materialità del corpo collassano uno nell’altro, e questa è una particolare tecnica di gestione della soggettività e di incarnazione dell’identità.
È attraverso queste categorie sociali biocertificate che le popolazioni si stabiliscono sui territori e diventano una risorsa a disposizione degli stati o del capitale. Quando gli apparati statali o il capitale si spostano in nuovi territori, essi portano con sé modalità di organizzazione dei corpi e delle identità come parte della struttura amministrativa attraverso la quale lavorano, essi li esportano e li impongono su altre popolazioni e altri territori. Mi riferisco in particolare alla società coloniale e al problema delle formazione della conoscenza indigena. Analizzando la questione con Guattari, non possiamo pensare la soggettività in isolamento, ma dobbiamo analizzarla in relazione alle altre istituzioni, nell’ambito di assembramenti sociali e in una particolare posizione geografica. Particolari modalità indigene di incarnazione dell’identità sono legate all’ambiente, così la lotta intorno alla formazione della conoscenza indigena implica le lotte intorno alla categorizzazione culturale, alla nozione del sé, alla cosmologia. E uno dei terreni in cui queste lotte per il potere sono elaborate, è precisamente il terreno della sessualità; l’incarnazione dell’identità è configurata come parte di una tecnica politica, come parte dell’insediamento di una popolazione su un territorio.
- In termini di tattica politica: come vede la lotta transgender in relazione a lotte sociali più ampie?
Penso che, da un lato, si deve riconoscere la specificità della lotta identitaria -Guattari la chiama “territorio esistenziale”- bisogna quindi parlare di esistenza, di come questa viene specificata attraverso determinati modi di incarnare la soggettività.
Quindi sì, si deve prestare attenzione alla specificità delle esigenze transgender, ma fare solo questo significherebbe riprodurre la logica di dividere la popolazione in categorie, senza andare a toccare la questione dei processi strutturali.
Naturalmente, l’intero movimento diventerebbe tanto più forte quanto più queste questioni diventano presenti nell’agenda; poi si dovrebbe pensare alle soluzioni creative nel contesto specifico in cui si sta lavorando. Ci sono tante tattiche: si possono articolare i propri punti in modo persuasivo; creare nuovi spazi per attirare l’interesse, alcune persone seguiranno; cambiare il modo di sentire della gente, le strutture della sensibilità possono essere molto, molto resistenti a volte; si possono fare cose che producono una sorta di intervento performativo che ha un risultato affettivo, qualunque cosa che faccia fermare la gente e sentire qualcosa in modo diverso. Questo è molto importante nella politica queer: come si fa a prendere la negatività diretta verso modi di essere emarginati e disprezzati e non semplicemente accettarla, ma trasformarla in qualcosa di nuovo? Come trasformare qualcosa che è additato, i trans per esempio, in un punto di partenza che apra la conversazione in qualche modo nuovo? Per concludere, credo che la cosa migliore sia sempre organizzare una bella festa e sviluppare tecniche che intervengano nella situazione esistente.
(1) Susan Stryker è Associate Professor of Gender and Women’s Studies all’University of Arizona e Director of the Institute for LGBT Studies. E’ autrice di numerosi articoli e libri sui temi del transgenderismo e del queer, il più recente è Transgender History (Seal Press 2008). Ha vinto un Lambda Literary Award per l’antologia The Transgender Studies Reader (Routledge 2006) e un Emmy Award per il film-documentario Screaming Queens: The Riot at Compton’s Cafeteria (Frameline/ITVS 2005).